16 nov 2009

Recensione di Damiano Realini

La regione, marzo 2009

Perché tanta metrica? Il verso libero che sì, ricordiamo, ha dato le ali all’esercito dei dilettanti poco inclini allo studio delle misure e tanto alla scatenata espressione delle emozioni, non è minestra per Vanni Bianconi che “ha un buon posto tra i migliori versificatori della Svizzera italiana”. L’ha scritto, il complimento virgolettato, Giovani Orelli su ‘Azione’. Ovviamente il termine “versificatore” allude, più che a un tecnico della lingua, a un poeta, e poeta Vanni Bianconi lo è senz’altro. Ne ha dato recente prova, dopo le incoraggianti – dicono quelli che avevano letto il libro – premesse di Faura dei morti, con la pubblicazione di Ora prima-Sei poesie lunghe edita da Casagrande (Bellinzona, 16 franchi per 60 pagine ben curate della collana Versanti). Bianconi, che conosciamo come ottimo traduttore dall’inglese (vedi la trasposizione in italiano dello splendido romanzo di Denton Welch Voce da una nube, sempre in catalogo Casagrande) e come direttore di Babel, festival di letteratura e traduzione di Bellinzona, rappresenta una voce originale e contemporaneamente radicata in una tradizione collaudata. La professoressa Raffaella Castagnola, in una intervista pubblicata su queste colonne in occasione dell’uscita per le Edizioni le ricerche di Losone (2008) dell’antologia, da lei curata, Di soglia in soglia -Venti nuovi poeti della Svizzera italiana, non ha esitato nel confessare che trova “particolarmente interessante l’opera di Vanni Bianconi che per certi aspetti si inserisce nella linea, fra le più riconosciute all’estero, che discende da Giorgio Orelli e passa da Fabio Pusterla”. Una linea questa che non ha mai ignorato o subito, nella costruzione del verso, l’importanza del metro e più in generale dell’armamentario formale classico (rime, assonanze, strofe...). Per esempio l’adozione, qua e là, dell’endecasillabo (pur sfregiato nell’ipermetria piuttosto che nell’ipometria), ovviamente ha, in Bianconi e negli altri suoi predecessori ticinesi, un peso simbolico che, andando a ritroso, si spinge fin nel Trecento, ancorandosi a una scuola tutta italiana robusta di secoli e di nomi (da Dante all’epica estense, dal Barocco all’Ottocento, al Pasolini delle Ceneri di Gramsci...). Con questo non vogliamo dire che Bianconi si rifugi nell’emulazione della tradizione ma che il dotto, mai casuale e persino complesso (anche laddove possa apparire ingannevolmente semplice), castello formale sia ossatura e impalcatura necessaria per fondervi, attorno e nel mezzo, pura materia poetica, libera, dolorosa. È come se Bianconi si affidasse all’ingegneria di una linearità classica per non lasciarsi sommergere dalle magmatiche visioni liriche che, provenienti da oscuri fondali, evocano i segni della guerra (bellissima La città senza assedio dedicata ad Abdulah Sidran), della solitudine, dell’aneddoto evaporato, dell’amore, della terra sprofondata, delle migrazioni umane, dell’erotismo... Lo sguardo di Bianconi, pure dove esplicitamente indica un luogo (Locarno, Zurigo, Mostar...) o un tempo o un aneddoto del suo vissuto, non si fa, né è mai, documentaristico. La sua poesia non si affida cioè al diarismo di viaggio, sia esso interiore o esteriore, ma registra il tentativo, la fatica e il coraggio di ordinare una presenza, la sua e la nostra, all’interno di un mondo dove la vita e la natura si presentano accomunate in un flusso temporale e spaziale largamente imperscrutabile, quasi enigmatico, almeno ai nostri occhi stranieri. E così, “ieri (è) costretto ogni giorno a essere domani”.

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