Ci sono libri sono fatti quasi esclusivamente di linguaggio, l’autore siede ai bordi del linguaggio e di quel tessuto orale e scritto ne fa trama, ossessione, movimento, vapore e ricordo. Il linguaggio in Tarmacadam. Ventuno incantesimi di Vanni Bianconi (nottetempo, 2021) è forma che si compone e che si dissolve.
Le parole stanno all’origine di questi racconti, che suonano come poesie in prosa, come saggi sulla traduzione, come trattati scientifici sulla perdita e sul ritrovamento, di case, di cose, di persone. I ventuno capitoli, racconti, frammenti, viaggi hanno qualcosa di magnetico, sono composti da un tessuto che attrae, sgomenta, che in qualche maniera avvolge. Ognuno degli incantesimi ha a che fare con un luogo, con un passaggio; e il luogo è stato attraversato molto tempo fa, e il luogo necessita, talvolta, di una riscoperta, di una riappropriazione, di un ritorno. Il luogo non è mai un paese soltanto, non è mai (soltanto) una città. Il luogo è una pagina, un’ombra, un bosco, una soffitta, una donna perduta, un consiglio ricevuto, un treno merci, una ricerca. Il luogo rappresenta il senso di scoperta e di perdita di ogni spazio. Bianconi parla di abbandono e delle cose che lasciamo, e di come queste ultime non ci lascino mai, perché noi siamo una sorta di traccia delle cose.
«Cercava un’immagine per marcare i suoi quarant’anni, quindi al contempo l’estensione di quarant’anni di vita e il punto da cui si riinizia a contare: fare un bilancio, tirare le somme, come si tende a fare riconoscendo al tempo il potere simbolico di una congiunzione astrale».
Bianconi è poeta e traduttore, e dal filo che tiene insieme questi due mestieri (?) scioglie un mondo terzo: quello del transito, del tradimento, del trasporto di una parola – e perciò di un sentimento – da una lingua all’altra. Esistono parole che non si possono tradurre o parole che sono uguali ma che in un altro posto mutano di significato. In questi scarti nasce il linguaggio di questo libro che compone il non componibile; in fondo anche una cassettiera se la spostiamo da una casa a un’altra non è più lo stesso mobile, pur non perdendo nessuna delle sue caratteristiche né materiali né affettive. Insomma, al protagonista di questi racconti accade esattamente ciò che capita a un codice quando manca una corrispondenza. In queste ventuno stanze che attraversiamo, osserviamo le paure, gli spaesamenti, le incertezze, gli spunti vitali del narratore. E lo capiamo, perché a ognuno di noi è capitato di non trovare la parola che ci traduca, di doverne inventare una, di non riuscirci.
«Lei sorrise a tutta la tristezza del luogo e disse che non sarebbe successo, senza calare un giudizio sulla cosa, solo sulle sue promesse. “Non contare su di me,” gli aveva detto».
Perciò i luoghi sono Verbano e Città del Messico, sono Beirut e San Paolo, sono Londra e una colonia penale, sono Ambrì, Trinidad e Tiblisi. E tutti quanti questi posti esistono e tutti quanti potrebbero essere inventati, come le molte parole che prendono a suonare come nuove e misteriose, come facevano le monetine di Nicola Pugliese sotto il diluvio di Malacqua (Einaudi, ora Tullio Pironti editore), in nuovo tintinnio che è condizionato dal paesaggio, dallo stato d’animo, dal tempo andato e perduto. E reinventati sono i versi che in questo libro compaiono, e si muovono i brani in corsivo, e seguono il flusso le note a piè di pagina, e sono unite al testo centrale sia la nota che lo introduce sia l’elenco dei riferimenti alla fine. Tutto scorre nel bel libro di Bianconi e in qualche modo si rinnova. Le donne e gli uomini saltano fuori dalle pagine come figure emerse, sempre un po’ sfumate, erose dal tempo, o da qualcos’altro che non si può nominare ma che esiste. Si resta affascinati perché ci troviamo davanti a un libro che non somiglia a molti altri libri, se non in qualche rimando (più di chi legge che dell’autore) che ci troviamo a cercare per orientarci, per aggiungere un ulteriore senso a quello già pienamente compiuto di questo Tarmacadam.
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